Il Colera in Canavese


Il XIX secolo fu caratterizzato da parecchie epidemie che si susseguirono in tempi diversi e si ripeterono in successione.
Le ragioni principali dello sviluppo di queste pandemie furono legate, ovviamente, ai notevoli cambiamenti dell’epoca: principalmente allo sviluppo delle comunicazioni tra continenti, all’intensificarsi del commercio con l’Impero Indiano e con l’Asia, alla fuga e al rimpatrio dei coloni europei e al ritorno dei soldati inviati in quei luoghi per le guerre.
Quando il colera asiatico fece la sua prima comparsa in Europa nel 1830, era sconosciuto per la maggior parte dei medici e grande confusione regnava nel settore: la scienza medica ferma alle sanguisughe, ai salassi e ai clisteri, imputava a varie cause la diffusione del morbo: ad un terremoto e al successivo uragano, ai venti australi che esercitavano un’influenza sullo sviluppo del morbo; chi sosteneva che il contagio fosse maggiore “dalle vesti” che non dalle persone. E che le donne gravide non venissero contagiate dal male. Ma nonostante si ignorassero le cause, si era constatato che il cholera si sviluppava prevalentemente nei territori malsani, con precarie condizioni igieniche e in assenza di servizi sanitari di base
Si ritenevano particolarmente disposti al morbo le persone dedite al vino, a venere, allo stravizio, quelli che non curavano la pulizia del corpo, degli abiti, delle abitazioni, mentre lo erano meno le persone educate e regolate. Il colera non rispettava ne età, ne sesso, ne clima, ne stagioni, si sviluppava prevalentemente nei posti poco ventilati e umidi e in genere dove l’aria era insalubre.
I consigli per la prevenzione erano abbastanza vaghi ed empirici. Veniva consigliato di non uscire di casa troppo presto al mattino e mai a stomaco vuoto, ma avendo cura di ingerire qualche alimento di conforto, quale il pane, il vino generoso oppure il cioccolato; di risciacquarsi la bocca con aceto allungato, di portarsi sempre appresso una boccetta con acido acetico concentrato e di fiutarlo quando ci si avvicinava a persone infette. Esistevano preparati anticolerici, quali bevande a base di malvasia di Sardegna, china, rabarbaro e assenzio.
Per i medici che venivano continuamente a contatto con i malati il consiglio era di lavarsi le mani con aceto, e di lavare con acqua, sapone e aceto eventuali oggetti posseduti dal malati.
L’abbigliamento consigliato per prevenire il diffondersi del morbo era la seta che per la sua caratteristica era meno adatta a ricevere e trasportare il contagio.
I governi presero ad emanare dei dispacci medici per limitare lo sviluppo del morbo. Avevano compreso che la salvezza del paese dipendeva dalla prontezza nell’isolare i primi casi, in modo che i primi individui colpiti non venissero a contatto con altri soggetti e che contro questa calamità lo sforzo del singolo non era sufficiente.
Le autorità pubbliche si trovarono ben presto in una situazione difficile: l’eccesso di limitazione della vita comune e sociale del malato creava panico nel popolo e andava a ledere la libertà dell’individuo, che a volte si trovava costretto a lasciare la propria abitazione per l’isolamento, ma d’altro canto la scarsa attenzione poteva far sembrare l’epidemia cosa da poco. Di fatto la confusione nel popolo era enorme: chi sosteneva che i malati non dovevano essere abbandonati dai familiari e trasferiti nei lazzareti, ma assistiti dai propri cari e chi invece, sollecitato dalle autorità e dai dotti, auspicava l’allontanamento dei malati.

Reparto di isolamento per pazienti affetti da malattie infettive
Anche nel Canavese vennero prese precauzioni per cercare di prevenire la diffusione del morbo.
Già il 7 novembre del 1831, a seguito dello sviluppo in Europa della malattia epidemica, Sillano de Sillany, colonnello comandante la Città e Provincia di Ivrea, cavaliere dell’ordine di SS. Maurizio e Lazzaro, emanava un manifesto dove ordinava che ogni individuo straniero senza arte e mestiere, sia essi zingaro o accattone non potesse introdursi nel Regio Stato e se nazionale non potesse uscire dalla propria provincia di appartenenza; che chi fosse sorpreso a vagabondare fosse espulso con foglio di via e indennità, con proibizione sotto pena d’arresto, di cambiare strada.
Il manifesto proseguiva con altra intimazione: se entro il fine dicembre 1831 girassero ancora vagabondi, ambulanti senza mestiere, accattoni, validi o invalidi d’ambo i sessi non di questa provincia, anche se muniti di carta regolare vengano arrestati.
I poveri per poter liberamente circolare fuori dal luogo nativo della propria provincia dovevano essere muniti di un certificato di buona condotta rilasciato dal sindaco; gli invalidi, per poter esercitare l’accattonaggio, dovevano avere un attestato dal Parroco, vidimato dal Sindaco che ne constatasse la povertà.
Il 20 novembre del 1831 il Sindaco di Ivrea, a seguito del precedente manifesto, pubblicò un richiamo auspicando l’aiuto della popolazione con benevolenza per i poveri e gli invalidi.
Nonostante le precauzioni, qualche anno più tardi (1835) anche il regno di Sardegna ne fu colpito: l’epidemia iniziò dai porti marittimi, a Nizza si contarono 224 vittime, ben 2.160 a Genova e si propagò nelle altre città. In particolare, nella città di Cuneo morirono 425 persone.
A Torino il morbo giunse nell’agosto del 1835, colpendo meno che in altre città (come Genova e Napoli), ma facendo comunque 220 morti principalmente nelle zone di Borgo Po, del Ghetto ebraico e Vanchiglia, quartieri poveri e malsani. Furono aperte infermerie a Dora, a Borgo Po, nell’Ospedale Maggiore San Giovanni Battista ed in quello di San Luigi in cui venivano ammesse le persone affette da colera.
Il 3 agosto del 1835 l’allora Magistrato della Sanità, Cassio, a seguito dell’arrivo del colera nella città di Torino e Cuneo, emanava una direttiva da porre in atto per prevenire la diffusione del morbo, sollecitando la pulizia delle strade e dei cortili, lo sgombero dei letamai e delle immondizie e delle acque stagnanti e sudice.
Ordinava di controllare che nelle botteghe non vengano venduti cibi malsani, pesci fradici e guasti e frutta e bevande corrotte. Segnalava che occorreva individuare dei locali per l’isolamento dei malati e per le loro cure mediche sottolineando  che tale assistenza doveva essere a carico dei Comuni, che doveva essere nominata una Commissione composta da Sindaco, medico condotto e dal giudice del mandamento per il controllo e la gestione nelle misure necessarie per affrontare il morbo. Inoltre, si raccomanda ai Parroci di tranquillizzare gli animi di tutte le persone, sollecitando di aver fiducia nell’operato del Governo.
A seguito di tale comunicazione, la giunta comunale di Ivrea individuava nella Cascina del Pozzo, nelle vicinanze di Porta Vercelli, appartenente al venerando Seminario della città, già destinata a lazzareto o pio ricovero, quale luogo per il ricovero dei malati dove dovevano essere preparati dodici letti.
Venne stabilito che l’immondizia conferita negli ultimi anni lungo il fiume Dora debba venir coperta da ghiaia, non di altezza inferiore di un metro. E ordinava che tutte le latrine aperte nelle case dovessero essere immediatamente chiuse con muro a calce.
In contemporanea a queste direttive di carattere esplicativo, l’Intendenza di Ivrea segnalava di non creare panico nella gente, di non variare il loro stile di vita, e che fiere e mercati dovranno tenersi come al solito evitando di creare isolamento tra comune e comune.
E per finire l’Intendente richiamava l’attenzione delle amministrazioni comunali specificando che sarebbe stato opportuno che i Sindaci di concerto con i Parroci espongano i bisogni dei poverelli, facendo notare quanto importante diveniva la carità dei paesani, sia nei soccorsi in natura o in denaro: le case comunali saranno aperte per ricevere le sottoscrizioni delle persone che vorranno obbligarsi a versare sussidi.
Di quel triste periodo abbiamo un’autorevole testimonianza del conte Maurizio Palma di Cesnola, che ebbe un ruolo notevole nei moti rivoluzionari del 1821 in Canavese.
Il Cesnola, in una lettera scritta a Rivarolo, datata 22 settembre 1835 e indirizzata al cugino Egisippo, console a Rio de Janeiro, descriveva le preoccupazioni che si avevano anche in queste zone, a causa della diffusione del “cholera asiatico” e delle speculazioni che anche su questa disgrazia qualcuno riusciva a fare.
Grazie a questa malattia la vendemmia è buona per i commercianti: cloro di calce, canfora, aceto a quattro volumi, sono ricercati; le ricette di Cadice, di Malaga, Siviglia sono usatissime e più ancora quelle di certi ebrei, composte nel modo seguente: absenzio pesto 2/8, rabarbaro pesto 2/8, china calydaria 4/8, taviaca oncia una, scorza d’arancio una. Il tutto messo in infusione in tre libre di vino vecchio ad alta gradazione in una bottiglia ben sigillata. Si lasciano tutte queste droghe avendo cura di agitarle due o tre volte al giorno, per tre o quattro giorni. Infine colare il vino filtrandolo e prendendone un’oncia, al mattino a digiuno. Quelli che vollero seguire questo metodo furono talmente riscaldati da essere costretti a far ricorso a lavaggi per non essere colpiti da infiammazione. Ecco qual è l’occupazione in Piemonte e Dio voglia che per molti si debba incidere sulla loro tomba l’epitaffio: “Stavo bene e per stare meglio sono qui”.
L’epidemia del colera del 1835 provocò in Canavese un numero limitato di vittime e con l’arrivo della stagione invernale, il colera regredì progressivamente in tutto il nord Italia, per poi ritornare nel periodo caldo dell’estate del 1836, principalmente nel centro e sud d’Italia, ma anche nelle province austriache, diffondendosi a Milano, Brescia e Venezia.
Il colera si ripeté più volte in Europa, in Italia, nonché nel nostro Canavese. Le statistiche sono incomplete e disomogenee ed è impossibile quantificare con precisione il numero delle vittime.
La scarsa documentazione ci informa che nel 1854 furono accertati 95 morti a Caluso, 66 a Mazzè e 24 ad Ivrea.
La più grave sembra essere stata quella del 1867. Nei mesi di giugno e luglio, nella Provincia di Ivrea vennero registrati 4669 casi di cholera morbus.
A seguito della pestilenza nei maggiori centri del Canavese furono istituiti dei lazzaretti, a cura delle Comunità. A Castellamonte fu utilizzato anche il Teatro Comunale. Ma nonostante l’impegno, le prevenzioni e le cure, 2376 persone della nostra provincia persero la vita.
La lotta della scienza contro il cholera iniziò nel 1854 quando il medico pistoiese Filippo Pacini scoprì, osservando al microscopio le sezioni dei corpi dei cadaveri colpiti dal morbo, che negli intestini vivevano un’immensità di piccoli esseri che si muovevano in varie direzioni e non esitò ad attribuire a questi la causa della malattia.
La scoperta non fu molto incoraggiata, né aiutata. Successivamente il professor Koch, nel 1882, confermò la teoria del Pacini e, utilizzando i suoi studi, arrivò alla constatazione che tali bacilli  vivevano e si riproducevano velocemente nel corpo determinando la malattia del colera.
Durante le sue ricerche scoprì che sopravvivevano nell’umido e nei liquidi alcalini e che si sviluppavano nella biancheria sporca, nei panni umidi, nei letamai e nelle fogne, mentre vivevano non più di tre ore in posti completamente secchi, né resistevano a lungo se posti in acidi o all’ebollizione dell’acqua.
Accanto a queste scoperte in campo medico, il Governo mise in atto varie riforme, che rappresentarono un importante passo avanti nella politica sanitaria. Al termine dell’Ottocento, con il ministro Crispi nacque la figura del medico provinciale e dell’ufficiale sanitario e nell’ambito del Ministero dell’Interno venne istituito un ufficio di Sanità diretto da un igienista.
In Italia il colera fece la sua ultima comparsa, a livello di epidemia diffusa, nel periodo 1910-1911.
Fonti
Archivio Storico Comune di Ivrea, Libro III, n. Ord. 38 e n. 769
Articolo gentilmente concessoci dalla rivista Canavèis

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