VITTORIO EMANUELE III IL RE NELLA TEMPESTA (1938-1946)

 

I fasci littori da tempo affiancavano lo scudo sabaudo anche nelle insegne pubbliche e nella carta intestata di ministeri e di enti territoriali. Ultimo baluardo della Monarchia rimase il tricolore. Il Re rifiutò che vi comparissero simboli di quello che da un decennio era il “partito unico”.

Il Re isolato

Fra il 1938 e il 1946 l’Italia visse anni convulsi. Il suo cammino proseguì a strappi, per segmenti discontinui, “nave sanza nocchiero in gran tempesta/non donna di Provincia ma bordello”. Tra il comandante della nave, il Re, e il timoniere, il capo del governo, mancavano gli ufficiali di collegamento. Le Camere, autoreferenziali, non svolgevano più il ruolo originario di rappresentanza de Paese reale. Beati allo specchio, i governanti credevano alla propaganda del Ministero della cultura popolare (Min-cul-pop), alle “veline” che essi stessi diffondevano. Apparentemente granitico, il regime si fondava sulla repressione del dissenso, spacciata per consenso, manipolato e prezzolato.

Il viaggio di Adolf Hitler a Firenze e a Roma nel maggio 1938 impresse la svolta. All’interno del Partito nazionale fascista crebbe e si fece sentire la componente repubblicana, sopita dal 1922 ma mai spenta. Molti fascisti ritenevano che a concludere vittoriosamente l’impresa di Etiopia non fossero il Regio Esercito, cioè l’Italia, ma Benito Mussolini in persona. Per loro il capo del governo e duce del fascismo doveva essere anche capo dello Stato, proprio come Hitler in Germania. Il cinquantanovenne Vittorio Emanuele III, sul trono dall’assassinio del padre (29 luglio 1900), in pubblico appariva poco, poco volentieri e da lontano: assisteva alle grandi manovre militari di terra e di mare, allo scoprimento di monumenti e a convegni di storia e di scienze, a esposizioni d’arte e di economia come la Fiera Campionaria di Milano, ove nel 1928 scampò per pochi minuti a un attentato che fece una orrenda strage. Mussolini, invece, amava dominare piazze straripanti. I fasci littori da tempo affiancavano lo scudo sabaudo anche nelle insegne pubbliche e nella carta intestata di ministeri e di enti territoriali. Ultimo baluardo della Monarchia rimase il tricolore. Il Re rifiutò che vi comparissero simboli di quello che da un decennio era il “partito unico”, strumento della fascistizzazione della società, perseguita mediante leggi approvate dal Parlamento, prono. Vittorio Emanuele III pensava per secoli; Mussolini scandiva il tempo dalla Marcia su Roma, inizio dell’ “era fascista”. Nel 1938 questa aveva 18 anni. Quella del Re ne contava 2600: era più “romana” della “fascista”.

Dal 1929 i deputati erano designati dal Gran consiglio del fascismo e approvati dal 95% e più degli elettori, che votavano sulla base della legge Rocco del 1928. Altrettanto avveniva nell’URSS e in altri regimi totalitari, con la differenza che in Italia il potere supremo rimaneva nelle mani del Re, sul quale il fascismo non aveva alcuna effettiva ingerenza, come, malgrado leggende, non ne aveva sulla successione al trono.

Però dal 1931 i pubblici dipendenti, inclusi i docenti universitari, giuravano fedeltà non solo al sovrano e ai suoi legittimi discendenti ma anche al regime. Privo di sostegno adeguato da parte di esponenti della tradizione liberale e mentre i gerarchi monarchici erano succubi di Mussolini, Vittorio Emanuele III, politicamente isolato per la sudditanza delle Camere al capo del governo, non poté arginare la sterzate del duce: le leggi razziali dell’autunno 1938 (su suggestione di quelle in vigore in Germania), la convergenza del fascismo criptorepubblicano con il nazionalsocialismo, la chiassosa invenzione del “Primo maresciallato dell’Impero”.

Hitler mirava a una guerra europea che l’Italia non era assolutamente in grado di affrontare. La conferenza di Monaco di Baviera (settembre 1938), che assegnò alla Germania la regione della Cecoslovacchia abitata prevalentemente da Sudeti (tedeschi del sud), fu l’ultimo tentativo di frenare la corsa verso il precipizio: l’invasione tedesca della Polonia e la conflagrazione europea (1 settembre 1939), previo patto di non aggressione tra Hitler e Stalin. Il 10 giugno 1940 l’Italia intervenne a fianco della Germania e condusse una “guerra parallela”, che si risolse in una serie di imprese avventate e per niente vitali nel quadro dei suoi interessi storici, dall’aggressione alla Grecia (ottobre 1940) a quella della Jugoslavia (ove fu creato il regno di Croazia, assegnato al riluttate Aimone di  Savoia, Duca di Spoleto) all’invio dell’Armata italiana in Russia, e di conseguenti sconfitte strategiche, a cominciare dalla perdita immediata dell’intera Africa Orientale e poi della Libia. Quando da europea la guerra divenne mondiale (1941) Mussolini continuò a calcare le orme di Hitler e del Giappone, anche con la dichiarazione di guerra agli Stati Uniti d’America,  del tutto invulnerabili ad attacchi da parte dell’Italia e dalle forze colossali rispetto a quelle italiane.

Non era diarchia

All’indomani dello sbarco anglo-americano in Sicilia e del bombardamento aereo di Roma, duramente “pedagogico” (luglio 1943), mentre partiti e movimenti antifascisti erano appena albeggianti e i principali gerarchi del regime chiedevano al sovrano di riprendere l’esercizio dei poteri statutari senza però rimuovere Mussolini da capo del governo (è la sostanza dell’ordine del giorno Grandi-Federzoni-Bottai del 25 luglio), il Re recise di persona il nodo gordiano. Sicuro del pieno sostegno delle Forze Armate, in un colloquio di pochi minuti solus ad solum revocò Mussolini da capo del governo e lo sostituì con il Maresciallo Pietro Badoglio, conosciuto e apprezzato anche a Londra e considerato garante della defascistizzazione dell’Italia.

La diarchia, cioè una sorta di pari sovranità del Re e del duce, era nell’appariscenza e rimase nella narrazione. Vittorio Emanuele III mostrò che l’Italia era invece una monarchia. Aveva in pugno ed esercitò la summa del potere: imporre le dimissioni al capo dell’Esecutivo, anche senza un voto del Parlamento (non convocato da anni) e sostituirlo motu proprio, in forza dello Statuto. Come poi acutamente osservò il liberale e monarchico Luigi Einaudi, quando ritenne fosse l’ora il Re si valse dei poteri che gli competevano.

Il Re assediato

Nel volgere di un mese il nuovo governo ottenne l’armistizio (3 settembre, reso pubblico l’8) ma, sic stantibus rebus e mentre gli anglo-americani già stavano organizzando il futuro sbarco in Normandia e non avevano urgenza di avanzare in Italia, passato da Roma alle Puglie (unica regione libera da tedeschi e da anglo-americani) non poté evitare che il Paese divenisse campo di battaglia tra le Nazioni Unite e la Germania: le prime fiancheggiate dal Regno d’Italia (co-belligerante), l’altra dalla Repubblica sociale italiana, capeggiata da Mussolini dal 23 settembre sotto pressante tutela nazi-germanica. Nei due anni seguenti e soprattutto dal novembre 1944 al maggio 1945 gli italiani vissero i peggiori tempi della loro storia dall’unificazione del 1861. Alle dure condizioni del conflitto in corso e alle privazioni  e afflizioni morali e materiali (a cominciare dal razionamento degli alimenti fondamentali e dalla quotidiana esposizione agli effetti diretti e collaterali del conflitto, in specie i pesantissimi e indiscriminati bombardamenti aerei) si aggiunsero la deportazione in Germania dei soldati catturati dai tedeschi (classificati come Internati Militari: ne hanno scritto esaurientemente Mario Avagliano e Marco Palmieri nel saggio I militari italiani nei lager nazisti, Mondadori, finalista all’Acqui Storia 2020), degli ebrei (facili da individuare perché “schedati” dal 1938) e di quanti fossero o venissero sospettati di opposizione politica. Anche Mafalda di Savoia, figlia del Re e della Regina Elena, principessa d’Assia, venne internata sul margine del lager di Ravensbruck, ove morì, gravemente ferita durante un bombardamento americano sul campo e non curata. Come milioni di italiani nella prima metà del Novecento anche il Re e la Regina indossarono i segni del lutto per motivi di guerra.

Nell’agosto 1943 i rappresentanti di partiti antifascisti deliberarono di non collaborare con il governo Badoglio. Il passivo della guerra doveva ricadere sulla monarchia: una decisione partitica, non patriottica. All’inizio di ottobre il Comitato centrale di liberazione nazionale costituito in Roma dichiarò di non riconoscere il governo. In gennaio i CLN dell’Italia meridionale radunati a Bari chiesero che il re abdicasse. Benedetto Croce intervenne con veemenza contro Vittorio Emanuele III, al quale venne meno anche il sostegno sincero di Badoglio, che mirava ad assumere la Reggenza, in forma non prevista dallo Statuto.

Enrico De Nicola, presidente della Camera all’avvento di Mussolini e senatore dal 1929, propose che il sovrano mantenesse la Corona ma ne trasferisse tutti i poteri al principe ereditario, Umberto, quale Luogotenente del regno, carica prevista dallo Statuto. Il “passaggio”, ruvidamente imposto al sovrano dagli anglo-americani in aprile, venne formalizzato il 5 giugno, all’indomani della liberazione di Roma, senza però che il Re e il Luogotenente fossero nella Capitale, come chiesto da Vittorio Emanuele.

Il nuovo governo, presieduto da Ivanoe Bonomi, mirò a sua volta a oscurare il Re e impose al Luogotenente che la futura forma dello Stato d’Italia venisse decisa dagli italiani. Il Decreto legge luogotenenziale del 25 giugno 1944 istituì una sorta di costituzione provvisoria.

Un anno dopo la fine della guerra in Italia (2 maggio 1945), segnata dalla dolorosa occupazione di territorio nazionale (Zara, Fiume, Istria, Trieste, Gorizia…) da parte della Jugoslavia di Tito, Vittorio Emanuele III abdicò e partì per l’Egitto, unico paese affacciato sul Mediterraneo non in guerra con l’Italia (9 maggio 1946). Il 2-3 giugno il referendum attribuì alla repubblica il 42% dei consensi del corpo elettorale (12.700.000 voti su 28.000.000 di elettori). Il presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, segretario della Democrazia Cristiana, pressato dai socialcomunisti (Togliatti, Nenni e Romita) e dal partito d’azione e con il consenso dei liberali (unica eccezione Leone Cattani), nei primi minuti del 13 giugno assunse le funzioni di Capo dello Stato. Per non aprire un conflitto armato, nel pomeriggio dello stesso giorno Umberto II lasciò l’Italia alla volta del Portogallo. Partì per l’estero senza abdicare, nella pienezza dei suoi diritti e senza riconoscere la vittoria della repubblica perché l’esito del referendum non era ancora ufficiale. Lo sarebbe divenuto il 18 giugno. Il giorno dopo fu stampato il n. 1 della “Gazzetta Ufficiale della Repubblica”.

Incombeva il Trattato di pace (pronto da tempo ma differito al 10 febbraio 1947 per non scuotere l’opinione pubblica prima del referendum istituzionale), che risultò duramente punitivo e ingeneroso, poiché non riconobbe all’Italia quanto le era stato promesso col Memorandum di Quebec dell’agosto 1943 e con l’“armistizio lungo” del 29 settembre 1943.

La parola alla Storia

La Costituente deliberò che agli ex Re di Casa Savoia e loro consorti e ai loro discendenti maschi erano vietati l’ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale e che i membri e i discendenti della Casa non fossero elettori né potessero ricoprire uffici pubblici e cariche elettive.

Tre giorni prima che la Costituzione entrasse in vigore, il 28 dicembre 1947 Vittorio Emanuele III morì ad Alessandria d’Egitto, ove aveva vissuto con la Regina Elena dedito agli studi e alla meditazione sulla Storia, che è fatta di idee, di istituzioni, di “uomini in carne e ossa” come scriveva Antonio Gramsci, e di spiriti liberi, capaci di ideali, quale fu Vittorio Emanuele III. L’esilio di Umberto II non venne mai revocato. Morì a sua volta all’estero (Ginevra, 18 marzo 1983). Gli erano stati tolti i diritti di cittadino italiano ma nessuno aveva potuto privarlo della Corona, che aveva portato con sé all’estero, nella certezza di poter tornare o infine almeno morire in Patria.

Quel lunghissimo e tragico decennio è ancora in attesa di essere meglio conosciuto. All’indomani della guerra e del referendum molti di quanti lo vissero preferirono sigillarlo nella memoria personale. Ne parlarono poco anche in famiglia. Tanti ricordi erano troppo dolorosi. Anche profittando del loro silenzio, ne venne proposta una narrazione unilaterale. La figura del Re venne via via oscurata. Vittorio Emanuele III, re per 46 anni, fu e continua a essere misconosciuto e persino vituperato. Anche in libri (a volte più grossi che utili) e in articoletti nei quali viene detto “pavido”. Eppure fu lui ad assicurare la resistenza dell’Italia dopo la sconfitta (non catastrofe) di Caporetto nell’incontro a Peschiera con gli alleati (8 novembre 1917). Fu lui a segnare e attuare la svolta decisiva il 25 luglio 1943. Lui a premere e a indicare le vie per ottenere l’armistizio. Lui a garantire la continuità dello Stato nella lunga difficile ricostruzione, dal trasferimento a Brindisi alla Riscossa. Certo era un sovrano scomodo, proprio perché sapeva e poteva guardare tutti negli occhi senza scomporsi, al più col lieve tremito del mento nelle emozioni supreme, come dinnanzi alla salma del padre.

Non si ha traccia sicura di sue “Memorie”. In loro assenza tocca pertanto agli storici sulla scorta dell’immensa mole di documenti disponibili ricomporre il mosaico per ricostruire la complessità e drammaticità del suo lungo regno, tutt’uno con l’Italia. Di sicuro Vittorio Emanuele III di Savoia non fu mai razzista. Fu di vasta e solida cultura. Dopo averlo conosciuto, Theodore Roosevelt disse che negli Stati Uniti d’America sarebbe stato sicuramente eletto presidente per larghezza di vedute,  alto sentire, fermezza e serietà. Fu sovrano costituzionale dello Stato sorto dal Risorgimento, dalle guerre per l’indipendenza e per le libertà, giunto all’unità, ancora incompleta, appena trent’anni prima della sua ascesa al trono. Va studiato e compreso.

Aldo A. Mola

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